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Qualcuno del PD ci informava dell'emergenza 

Alitalia continua a perdere un milione di euro al giorno.


Così Giuseppe Adamoli consigliere regionale della Lombardia
parla della situazione di Alitalia. Dopo le promesse elettorali di Berlusconi, non si vede ancora la cordata. Il prestito ponte è diventato ormai un fondo perso. L'azienda è in continua perdita: e non si vede la soluzione al problema. Con tutte le ripercussioni che potrà avere su Malpensa.





TORNARE AL MERCATO

MENTRE Alitalia muore e i mercati vanno in fiamme, gli uomini di Berlusconi hanno avuto ieri sera l'unica preoccupazione di occupare le televisioni per dare la responsabilità alla sinistra, alla Cgil e addirittura al Pd, che in realtà è sembrato piuttosto assente dalla vicenda. In questo modo si conferma soltanto la torsione anomala di una partita che dovrebbe essere economica e industriale mentre è invece politica e ideologica.

Per ragioni di pura convenienza politica in campagna elettorale Berlusconi (aiutato dalla cecità dei sindacati) si è opposto alla soluzione Air France, in condizioni ben più favorevoli dei mercati finanziari e petroliferi. Per ragioni ideologiche ha giocato su Alitalia la doppia carta del salvataggio eroico e dell'italianità preservata, scavalcando Tremonti per avocare a sé la vicenda.

La vittima è il mercato, con le sue regole. Perché è nata una cordata, ed è nata italiana: ma al prezzo di separare gli attivi di Alitalia dai passivi, consegnare i primi alla nuova compagnia e i secondi ai contribuenti, sospendere l'Antitrust, radunare tra i soci una somma impressionante di conflitti d'interesse. Alla fine la corporazione dei piloti ha detto no per difendere privilegi indifendibili, e la Cgil ha preferito non farsi scavalcare, con una posizione più incerta che autonoma.

La partita è sfuggita di mano al salvatore, che probabilmente proverà prima a lucrare sulle resistenze sindacali, poi cercherà un colpo di teatro, anche alla luce dei salvataggi americani. L'interesse del Paese è che il mercato prenda il posto dell'ideologia, almeno in extremis, che Fantozzi faccia il commissario e non il ministro delegato, che gli imprenditori cerchino il rischio e non i favori, che le banche finanzino il mercato e non la politica.
C'è un ultimo spiraglio per far incontrare un vettore aereo europeo interessato al nostro parco viaggiatori con quel tanto di effettiva imprenditorialità italiana residua. 




LA SVOLTA DI MEDIOBANCA


In parte è possibile che si tratti di una leggenda metro­politana, ma si racconta che Mediobanca nacque subito dopo la guerra su una battuta di Raffaele Mattioli, allora gran capo della Banca commerciale italiana: “Cuccia è troppo intelligente per tenerlo qui in Comit. E’ meglio che gli facciamo una banca tutta sua”. Dopo, per quasi mezzo secolo, Cuccia ha gestito Mediobanca in autonomia assoluta e facendone la banca d’affari più importante d’Italia. “In quegli anni – spiega un banchiere dei giorni nostri – c’era una specie di regola nella finanza italiana. Quando un’azienda era alla fine, fallita, la si andava a depositare sulla scrivania di Cuccia, e lui provvedeva”.

Prima o poi, tutte le grandi famiglie del Nord, senza eccezioni, sono andate a depositare i loro imperi su quella scrivania. Sulla scrivania del più straordinario banchiere che questo paese abbia mai conosciuto. E molte di quelle famiglie sono ancora al loro posto, mentre altre hanno dovuto passare la mano o sono sempli­cemente affondate.

Mediobanca era, attraverso le tre banche di interesse nazionale, di proprietà dell’Iri (e quindi del governo), ma nessuno ha mai pensato che si potesse dire o ordinare a Cuccia di fare questo o quello. E lui, per cinquant’anni, ha fatto e strafatto. Ha persino scalato suoi clienti, e poi li ha anche riscalati, ha cambiato le maggioranze, ha cancellato in venti secondi manager che sembravano fra i più potenti d’Italia.

La magia di Cuccia gli è in parte sopravissuta. Scomparso lui, il suo successore, Vincenzo Maranghi, ha cercato di proseguire lungo la stessa linea (autonomia da tutti), ma proprio su questo è stato sconfitto e ha dovuto andarsene. E dopo Maranghi, sotto la presidenza di Galateri, la relativa grande autonomia del management è continuata, come se i cromosomi di Cuccia si fossero trasmessi dentro la banca.

Adesso,  però, si ha la sensazione che questa lunga e gloriosa storia sia arrivata alla fine. Se Cuccia per mezzo secolo ha dovuto rispondere di quello che faceva solo a se stesso, ormai è cambiato tutto. In Mediobanca ci sono molti azionisti (italiani, francesi, bancari e industriali) e nessuno sembra che abbia più voglia di lasciare tanta indipendenza ai manager. Il senso profondo dello scontro in atto è proprio questo: in un certo senso, la fine della straordinarietà di Mediobanca, dove per decenni il talento e la competenza bancaria non hanno avuto altro riferimento che se stessi.

Oggi, dentro la banca si confrontano grosso modo due scuole di pensiero (e di azione). Da una parte c’è l’uomo forte, il presidente del Consiglio di sorveglianza, Cesare Geronzi, banchiere romano e molto “politico”, il quale pensa che l’istituto ha un senso solo se diventa il regista e il protagonista delle grandi partite finanziarie in corso. Dall’altra, c’è il management il quale pensa invece che quello che conta è una buona gestione: il mondo non è più quello di Cuccia e Mediobanca è solo una banca d’affari fra le tante. Al di là degli scontri sulle persone, la posta in gioco è proprio questa: e cioè che cosa deve essere la banca nei prossimi anni. L’incrocio dal quale passano tutti gli affari più importanti o più semplicemente un istituto che fa quello che può.

Può sembrare che si tratti di una questione solo tecnica o teorica, ma non è così. E’ evidente, infatti, che l’idea di Mediobanca come grande regista dei grandi affari oggi presuppone rapporti molto stretti con il potere politico (ci sono almeno due o  tre grandi privatizzazioni ancora da fare) e con tutte le altre centrali di affari. Sarà un caso, ma c’è una battuta velenosa che circola molto di questi tempi nei dintorni di Mediobanca: “Chi è il più grande banchiere d’affari oggi in Italia?”. E la risposta corretta è: Corrado Passera, l’amministratore delegato di Intesa, che ha “risolto” il nodo Alitalia e che ha certamente guadagnato molti crediti verso il governo e il potere politico in generale.

Insomma, al di là delle polemiche sulla governance c’è appunto la questione del referente dell’istituto. Mediobanca al servizio del paese o Mediobanca al servizio di Mediobanca (di un  buon bilancio e basta)? Di nuovo, non si tratta di una questione filosofica, ma di strategia: non a caso è proprio su questo punto che le nostre due maggiori banche, Unicredit e Intesa, sono differenti. La prima è per una gestione più tecnica (che misura se stessa in base all’efficienza e ai risultati), la seconda per una gestione invece più socialmente responsabile.

Ma non si tratta del solo nodo che va in discussione oggi. All’orizzonte c’è anche il problema della natura di Mediobanca. Oggi essa è una banca d’affari (compra e vende), ma è anche una banca di partecipazioni (Generali, Rcs-Corriere della Sera, Telecom, le maggiori). Deve continuare così oppure deve liberarsi delle partecipazioni (che sono potere, e non solo soldi) per potersi concentrare sul proprio mestiere di banca? Chi  sostiene che non deve cambiare niente (per quanto riguarda le partecipazioni) è, ad esempio, Geronzi, il quale dice che è sempre stato così e che Cuccia riusciva a avere il ruolo centrale che ha sempre avuto anche perché non era affatto un potere disarmato. Nei momenti di crisi e di necessità poteva mobilitare le Generali e altre società satelliti di Mediobanca. Aveva talento (e su questo non si discute), ma aveva anche la forza. Chi invece è per la separazione fra le due anime di Mediobanca (banca d’affari e banca di partecipazioni) è, ad esempio, Alessandro Profumo, il numero uno di Unicredit.

E non per una questione polemica. Profumo da anni cerca di costruire una banca-banca, grande e con apertura internazionale. E finora c’è riuscito. Ma sa benissimo che, per fare questo, bisogna non farsi intrappolare nelle questioni di potere e di schieramento in Italia. Non a caso è uscito già due volte dalla Rcs-Corriere della Sera e ha dimezzato la sua partecipazione in Mediobanca. E forse medita di uscirne del tutto, per tagliare netto con tutte le storie italiane di potere e di schieramento.

In sostanza, il confronto è fra chi pensa a una Mediobanca “agente della riorganizzazione italiana” (ovviamente con un dialogo con il potere politico), e questo possiamo dire che è Geronzi, e chi pensa che invece la riorganizzazione vada affidata al libero gioco di un mercato popolato da banche e aziende efficienti, e questo è Profumo.

E poi c’è la questione dell’apertura internazionale. Cuccia non aveva questo problema. Lui aveva un rapporto personale con la Banque Lazard (New York e Parigi) e con il suo capo storico Andrè Meyer, forse il più grande banchiere di tutti i tempi, e ogni cosa passava attraverso quel canale. Sono rimasti famosi gli incontri estivi fra i due, con Cuccia in  vacanza sulle Alpi francesi, in giardino, intento a leggere finalmente in  pace i poeti latini o inglesi in  lingua originale, e con Meyer che arrivava in  elicottero, facendo un fracasso intollerabile. Superato lo sconcerto (Cuccia non ha mai perdonato al suo amico Andrè questi arrivi chiassosi), i due stavano lì, poi, delle ore a combinare affari e trame, qualche volta sul filo del lecito (al punto che sono anche stati bastonati dalla Sec americana, in almeno un’occasione).

Solo che Andrè Meyer non c’è più, Cuccia è morto e anche la Lazard è ormai un’altra cosa. Il problema dell’apertura interna­zionale, quindi, esiste e è grosso. E Mediobanca è certamente in ritardo. Ma, di nuovo, si torna alla questione principale. C’è chi pensa, cioè, che per potersi far largo sui mercati internazionali, bisogna non essere invischiati nelle trame del potere domestico, italiano. E c’è chi invece pensa che, comunque, Mediobanca non può rinunciare a essere la banca d’affari numero uno della scena italiana, in un certo senso la banca di riferimento.

Sbaglierebbe, insomma, chi pensasse che, sistemata la questione della governance (con la vittoria di Geronzi o del management, o con il compromesso) tutto è finito. In realtà, bisogna decidere se Mediobanca (che nasce e cresce come banca molto atipica) deve continuare sulla vecchia strada (“agente della riorganiz­zazione italiana”), o se invece deve accettare di essere una banca d’affari come tutte le altre e accettare di farsi strada solo grazie al proprio talento, alla propria intelligenza, ai propri uomini.



S
orpasso Cinese

L’altro giorno sul Financial Times è stato pubblicato un’ analisi del Global Insight, un istituto di statistica americana (come l’ Istat in Italia), in cui si dice che si attende dall’anno prossimo un sorpasso dell’economia cinese rispetto a quella americana.

Stando ai precedenti calcoli dei più grandi economisti, la Cina supererebbe gli U.S.A. con quattro anni di anticipo, conquistando così, già dall’anno prossimo, il primato mondiale.

Stando all’analisi del Financial Times, la Cina l’anno prossimo produrrà 11.783 miliardi di dollari  di valore aggiunto creando così il 17% di tutta la produzione industriale del pianeta contro il 16% degli U.S., così la Cina batterà gli Stati Uniti per un punto percentuale della produzione industriale del pianeta. A pensare che appena un anno fa gli americani mantenevano il primato con il 20% della produzione industriale mondiale e la Cina occupava il secondo posto con il 13,2% , era presente un grosso distacco tra le due potenze.  

Negli Stati Uniti vi è comunque un certo malcontento, infatti la maggioranza dei cittadini degli States credono che l’economia del proprio paese è stata già da tempo superata da quella cinese.

 

Negli Stati Uniti, però, si sta vivendo una certa crisi morale che non crea assolutamente la forza di reagire a ciò: incominciando dai mezzi di informazione  come i quotidiani e le riviste che hanno il pessimo vizio di mettere in prima pagina le notizie più tragiche come le chiusure di fabbrica, licenziamenti di massa e fallimenti di aziende, non fanno notizia (o meglio fanno poca voce),invece, gli arrivi di molte multinazionali (anche cinesi) negli U.S.A. che domandano lavoro.

Cosi anche riguardo la vendita di prodotti (finiti): negli States in qualsiasi supermercato o ipermercato si vendono una marea di prodotti con tanto  di scritta “made in China”, mentre i prodotti “made in U.S.A.” sono perlopiù presenti nel campo aerospaziale, biomedico, robotica industriale e quant’altro, ossia tutti quei prodotti poco visibili al consumatore finale, ma tanto visibili alle aziende.

Davanti a questo scenario posso anche giustificare il comportamento pessimista dell’ americano medio.

 














 
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